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sabato 27 aprile 2019

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lunedì 8 aprile 2019

Bebe Vio: chi è, età, malattia, carriera e vittorie dell’atleta azzurra


Una delle atlete più conosciute e amate del panorama sportivo italiano. Grazie al suo grande carattere e alla sua determinazione è riuscita ad ottenere tantissimi riconoscimenti e a conquistare moltissime medaglie.

Bebe Vio, il cui nome completo è Maria Beatrice Vio, nasce il 4 marzo del 1997 a Venezia, seconda di tre fratelli. All'età di cinque anni inizia a praticare la scherma, sport che ben presto si trasforma in una grande passione. Nel mese di novembre del 2008, quando frequenta le scuole medie della sua città, Mogliano Veneto, in provincia di Treviso,
La malattia
Bebe Vio viene ricoverata improvvisamente in ospedale a causa dell'acutizzarsi della cefalea e della febbre di cui soffre da qualche giorno. I dottori che la prendono in cura, immaginando di avere a che fare con un caso di sepsi da meningite, decidono di ricoverarla nel reparto di terapia intensiva pediatrica dell'ospedale di Padova. Qui però Bebe arriva quando è già in condizioni gravi.
Nel nosocomio della città euganea i medici si rendono conto di trovarsi davanti a un episodio di meningite da meningococco di gruppo C. In provincia di Treviso nei mesi precedenti esso aveva assunto le dimensioni di una vera e propria epidemia - nonostante ciò Beatrice Vio e i suoi coetanei non erano stati sottoposti alle vaccinazioni contro la meningite eseguite nel 2007 nella zona, in quanto tale campagna era stata destinata unicamente ai bambini di età minore.
La meningite
La forma di meningite contro la quale deve lottare la ragazzina veneta è acuta e rapida. E' per questo che a pochi giorni di distanza dalla manifestazione dei primi sintomi Beatrice è in bilico tra la vita e la morte. Durante i primi giorni di ricovero in ospedale, Bebe Vio è vittima di una crisi settica per colpa della quale ha alcune emorragie interne.
I dottori, nel tentativo di salvarle la vita, prendono la decisione di amputarle le gambe, da sotto le ginocchia. Oltre alle gambe si rende necessaria l'amputazione di entrambe gli avambracci. Con il passare delle settimane le condizioni della ragazza diventano più stabili, pur permanendo serie: saranno in tutto più di cento i giorni passati in ospedale tra il reparto di terapia intensiva e quello di chirurgia plastica.
La meningite lascia sul fisico di Bebe Vio tracce profonde. Non solo le amputazioni degli arti, ma anche molte cicatrici distribuite sul volto e su numerose altre parti del corpo.
Una seconda vita per Bebe Vio
Una volta dimessa dall'ospedale, la ragazza lascia Padova e torna a Mogliano Veneto, dove ricomincia a frequentare la scuola. Avvia la riabilitazione che le è indispensabile, a Budrio, presso il Centro Protesi dell'Inail.
Dopo essersi ristabilita, decide di non tornare a tirare di scherma ma si dedica per un periodo all'equitazione. Ben presto, però, sente il richiamo della pedana, e con l'aiuto dei tecnici delle protesi, dei suoi insegnanti e della sua famiglia, Bebe Vio ricomincia a usare il fioretto.
Negli anni successivi alla malattia Bebe si sposta su una sedia a rotelle, aspettando che vengano sviluppate e realizzate delle protesi che le consentano di muoversi in maniera più disinvolta e con una maggiore libertà. Nel frattempo i suoi genitori danno vita a un'organizzazione non a scopo di lucro, l'Art4sport, pensata per fornire ai bambini che usano protesi di arto, un supporto per integrarsi nel tessuto sociale tramite l'attività sportiva.
Gli anni 2010
Nei primi mesi del 2010 Beatrice Vio riceve le protesi per tirare di scherma, messe a punto dal Centro Protesi di Budrio in collaborazione con il Comitato Paralimpico Italiano. Può, così, fare le prime prove sulla sedia a rotelle. Quell'anno prende parte alla Family Run della maratona di Venezia: nell'occasione, la sua sedia a rotelle viene spinta da Oscar Pistorious, atleta sudafricano paralimpico, simbolo internazionale, ancora non protagonista delle vicende di cronaca nera che lo tormenteranno in seguito.
Successivamente Bebe si allena tra Padova, Bologna e Roma, ricevendo il sostegno di Fabio Giovannini e del polacco Ryszard Zub, due degli allenatori di scherma più famosi al mondo. Viene seguita anche da Alice Esposito e Federica Bertone, le due insegnanti della Scherma Mogliano che si occupavano di lei già prima che venisse colpita dalla meningite.
Più tardi Beatrice diventa la prima atleta di tutto il continente europeo con il braccio armato protesizzato. Desiderosa di prendere parte alle Paralimpiadi di Londra 2012, sceglie di rinunciare all'idea prematura, su consiglio dei suoi allenatori e dei suoi genitori, ma non si arrende. Nella capitale britannica, infatti, è tedofora e porta la fiaccola olimpica in occasione della giornata di inaugurazione della manifestazione, in rappresentanza dei paralimpici del futuro.
I successi sportivi
Nel 2012 e nel 2013 la ragazza si aggiudica il primo posto individuale ai campionati italiani di categoria B. Dopo aver conquistato il torneo di Montreal e quello di Lonato, sale per due volte sul podio in Coppa del Mondo. Seconda ai campionati mondiali under 17 disputatisi in Polonia, a Varsavia, nel 2014 vince gli Europei sia nel torneo individuale che in quello a squadre, ripetendo il successo l'anno dopo ai Mondiali in Ungheria.
Sempre nel 2015 Bebe Vio pubblica "Mi hanno regalato un sogno: La scherma, lo spritz e le Paralimpiadi", libro edito da Rizzoli che contiene le prefazioni scritte dal presidente del Comitato Paralimpico Luca Pancalli e da Jovanotti.
Bebe Vio campionessa paralimpica
Alle Paralimpiadi di Rio de Janeiro, proprio nello stesso giorno in cui Alessandro Zanardi all'età di quarantanove anni conquista il suo terzo oro paralimpico, Bebe Vio sale sul gradino più alto del podio nella competizione di fioretto, battendo per 15 a 7 in finale una delle favorite, la cinese Jingjing Zhou.
Arriva al successo dopo avere conquistato tutti e cinque gli incontri del girone A per 5 a 0, impresa di cui nessun'altra schermitrice è stata capace. Nel suo percorso ha battuto anche la polacca Marta Makowska per 15 a 6 nei quarti di finale e la cinese Yao Fang, addirittura per 15 a 1 in semifinale (un risultato ancora più clamoroso se si pensa che l'asiatica era una delle candidate più accreditate per la vittoria finale).
Oltre la scherma
Le sue caratteristiche sono quelle di un carattere sempre positivo, grande determinazione, grinta e anche simpatia. Bebe Vio è diventata così anche un personaggio mediatico, capace di sfruttare la sua immagine per dare visibilità alle cause che sostiene. Oltre alla scherma tiene incontri motivazionali in tutta Italia.
Dopo aver posato per una campagna a sostegno della vaccinazione contro la meningite realizzata dalla fotografa Anne Geddes a ottobre 2016 Bebe è chiamata a far parte della delegazione italiana che partecipa alla cena di Stato tra il premier italiano Matteo Renzi e Barack Obama, alla Casa Bianca.
E' possibile seguirla sul suo account Instagram @bebe_vio, oppure sul suo sito www.art4sport.org.
Nel febbraio 2017 riceve il Laureus Award 2017, il riconoscimento più importante come miglior atleta con disabilità dell'anno precedente.

martedì 2 aprile 2019

Giornata Mondiale per l'Autismo, i monumenti si tingono di blu: le iniziative del 2019


Il 2 aprile si celebra in tutto il mondo la Giornata Mondiale per l'Autismo. Indetta dall'Onu nel 2008, questa ricorrenza è diretta ad alimentare la conoscenza dei disturbi dello spettro autistico e a favorire azioni sociali per promuovere una maggiore inclusione. In tutto il mondo, migliaia di monumenti si tingeranno di blu, in segno di partecipazione all'iniziativa.
Il 2 aprile numerosi monumenti in tutto il mondo si tingeranno di blu, in segno di partecipazione all'evento. Inoltre torna la campagna della Fondazione Italiana Autismo #sfidAutismo19 per la raccolta fondi destinata alla ricerca sui disturbi dello spettro autistico
Cos'è l'autismo
L'autismo fa parte dei "disturbi pervasivi dello sviluppo". Ne fanno parte anche la Sindrome di Asperger, la Sindrome di Rett, il Disturbo Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato (PDD-NOS) e il Disturbo Disintegrativo dell’Infanzia. Per indicare queste condizioni si usa l'espressione "disturbi dello spettro autistico", che emergono quando sopravviene un alterato sviluppo del cervello. Gli effetti variano da problemi di interazione sociale a quelli di comunicazione, passando per i comportamenti ripetitivi. Possono verificarsi anche disabilità intellettive e alterazioni della coordinazione motoria. I primi sintomi sono visibili già attorno ai due-tre anni del bambino. La diagnosi tempestiva è fondamentale per poter intervenire con terapie farmacologiche che migliorino la qualità della vita del paziente. Non esistono infatti cure definitive per questi disturbi, ma sono disponibili dei trattamenti che possono essere d'aiuto. Inoltre è possibile intervenire con terapie comportamentali. Le cause dei disturbi dello spettro autistico non sono note e dalle ultime stime riguardanti gli Stati Uniti e diffuse da FIA - Fondazione Italiana Autismo, un bambino su 68 soffre di sindrome dello spettro autistico, un dato cresciuto di 10 volte negli ultimi 40 anni. Secondo il Ministero della Salute, nel 10-15% dei casi può esserci una connessione con la genetica.
Cos'è la Giornata Mondiale per l'Autismo
La Giornata Mondiale della Consapevolezza sull'Autismo (World Autism Awareness Day) è stata indetta dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2008, in quanto la tutela dei diritti delle persone con disabilità - autismo compreso - è parte integrante del mandato dell'organizzazione mondiale. A garanzia di questi individui c'è anche la Convenzione sui diritti delle persone con Disabilità (CRPD). Nell'Agenda per lo Sviluppo Sostenibile 2030, sottoscritta nel 2015, la comunità internazionale ha riaffermato il suo forte impegno per creare un mondo più inclusivo, accessibile e sostenibile, con il chiaro obiettivo di non lasciare indietro nessuno. Per questo, la partecipazione alla vita lavorativa di persone con autismo è un requisito essenziale per creare uno sviluppo sostenibile.
Eventi e iniziative Onu
Il Dipartimento per le comunicazioni globali e il Dipartimento economico e degli affari sociali delle Nazioni Unite organizzeranno le attività per la Giornata Mondiale per l'Autismo nel quartier generale di New York, in stretta cooperazione con persone affette dal disturbo e con le organizzazioni che le rappresentano. Segno universale scelto per celebrare la Giornata Mondiale della Consapevolezza sull'Autismo è il blu, colore con cui in tutto il mondo, il 2 aprile, vengono colorati i monumenti più importanti grazie a un gioco di luci. Tra gli obiettivi dell'Onu c'è quello di eliminare le barriere di ogni tipo, che impediscono alle persone autistiche un accesso democratico alla vita civile. A settembre 2018 il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha lanciato una nuova strategia sulle nuove tecnologie, che mira a definire come il sistema Onu supporterà l'uso di questi mezzi per accelerare il raggiungimento degli obiettivi della 2030 Sustainable Development Agenda e l'allineamento con i valori della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Eventi e iniziative in Italia
In linea con le attività delle Nazioni Unite, anche in Italia saranno tante le piazze e i monumenti che, da nord a sud, si illumineranno di blu o avranno un segno di questo colore. Tanti volontari saranno per le strade, pronti a raccontare il quotidiano di chi convive con l'autismo e delle loro famiglie. Dall'1 al 14 aprile in Italia torna poi #sfidAutismo19, le iniziative organizzate dalla Fondazione Italiana Autismo per sostenere la ricerca scientifica e l'inclusione delle persone con autismo e delle loro famiglie. La quarta edizione della campagna prevede la possibilità di fare donazioni tramite sms o chiamate fisse. I fondi raccolti saranno destinati a progetti di ricerca rivolti all'istruzione, alla formazione degli operatori della scuola, della sanità e dei servizi sociali, oltre che alla ricerca in campo biomedico e pedagogico.
Tratto da www.tg24.sky.it

giovedì 21 marzo 2019

#ReasonsToCelebrate: il video di Coordown che non festeggia ma ci mette con le spalle al muro

21 MARZO 2019 di 

La porta della monumentale biblioteca si apre solennemente. Un ragazzo avanza mentre decine di libri volano magicamente nell’aria e sembrano brillare. E mentre cammina il giovane spiega che il 21 Marzo è la Giornata Mondiale della Poesia: «Celebriamo l’arte che trasforma i sogni in parole e le parole in sogni», dice avvolto da un’aura che richiama vagamente le atmosfere di Harry Potter. Un libro vola via dalle sue mani. E di colpo, la scena cambia. 
Appare una foresta vista dall’alto, gli alberi di un verde chiaro e brillante. Tra l’intrico di tronchi sottili serpeggia una fila di persone in mantellina gialla con cappuccio: elfi del ventunesimo secolo. Avanzano rapìti da quella bellezza viva che restituisce respiro a respiro. Una ragazza bionda spiega che il 21 Marzo è anche La Giornata Internazionale delle Foreste: «Celebriamo – illustra – tutti i tipi di alberi e boschi che ospitano tante meravigliose forme di vita».
Cambia ancora scena e appaiono giovani donne che danzano in cerchio accanto a un falò. La ragazza al centro del cerchio spiega che il 21 Marzo è anche la Giornata del Nowruz (un’antica celebrazione comune a molte nazioni mediorientali e dell’est europeo che segna il risveglio della terra e che si celebra proprio per l’equinozio di Primavera ndr). «Celebriamo i valori di pace e solidarietà fra le generazioni e le famiglie», rivela.
E di colpo la scena cambia ancora. Per l’ultima volta.
Balli, colori e allegria sono sostituiti da un ambiente grigio, semibuio, solitario, duro. Il silenzio sospende il fiato. Sullo sfondo, a sinistra, solo un cono di luce illumina dall’alto metà di una sagoma umana. È un uomo dal viso asciutto e lo sguardo penetrante e senza rimedio. Un colpo di tacco dà il via a un messaggio doveroso e sofferto: «il 21 Marzo è anche la Giornata mondiale sulla sindrome di Down. Purtroppo, però, non abbiamo tanti motivi per festeggiare».
Segue una manciata di fotogrammi in cui gli altri tre protagonisti spiegano a turno: «Quando tutti noi, e non solo alcuni di noi, avremo più opportunità a scuola, nel lavoro, nella vita sociale, solo allora avremo davvero dei motivi per festeggiare». E poi il silenzio sui loro primi piani, l’espressione del viso seria, preoccupata. 
Ricompare, muto, l’ultimo protagonista; anche per lui parlano lo sguardo, dritto e vivo, le due lunghe rughe d’espressione agli angoli della bocca, le fattezze di un volto scolpito, bellissimo. E infine, mentre il campo si riallarga e svela che l’uomo è su di un palcoscenico vuoto e buio, mentre anche il cono di luce sembra smorzarsi, appare sullo schermo la frase non detta, un tuono al rallentatore: «Leave no one behind»: non lasciate indietro nessuno.
Un pugno nello stomaco, l’attesa spasmodica di un‘altra sorpresa, come se dietro le quinte di quel palcoscenico dovesse ancora accadere qualcosa, come se dovesse ancora rivelarsi un altro finale. In fondo, la denuncia è stata fatta, il messaggio è stato forte e chiaro. Coraggio, ancora un colpo di scena… E poi i protagonisti hanno tutti la sindrome di Down, il video non può finire così! E invece sì, finisce lì. In una condizione irrimediabile dove non c’è posto per altri concetti, per altre parole. 
È così, senza facce simpatiche e senza sketch a effetto che quest’anno Coordown celebra la Giornata Mondiale della Sindrome di Down, includendo nella sua le altre tre Giornate Mondiali che l’Onu celebra il 21 Marzo. Il video della campagna “Reasons To Celebrate”, per la regia dell’ungherese Rudolf Péter Kiss è basato sulla potenza della fotografia, sulla bellezza che non nega il dolore e lo rende “fruibile” perché solo l’arte può veicolarlo. La campagna è nata dalla collaborazione delle agenzie FCB Mexico e SMALL New York e prodotta da Switzerland’s GOSH* a Budapest. I quattro magnifici attori provengono da quattro Paesi diversi: Ruben dalla Gran Bretagna, Lauriane dalla Svizzera, Arjona dall’Albania e Davide dall’Italia. Anche quest’anno la campagna internazionale è stata realizzata insieme a DSi – Down Syndrome International con il contributo di Down Syndrome AustraliaDown’s Syndrome Association (UK)Down Syndrome Albania Foundation e le associazioni svizzere Art21 Association Romande Trisomie 21 e Progetto Avventuno. Non c’è anno in cui il CoorDown (Coordinamento nazionale delle associazioni delle persone con sindrome di Down) non abbia proposto campagne scomodedalla lettera del bambino non ancora nato alla futura mamma, alle campagne di autonomia, fino alla vita di coppia e al rifiuto di definire “speciali” i bisogni semplicemente umani. Che sono quelli di tutti, qui ripresi attraverso la Poesia, la salvaguardia delle Foreste, il Nowruz: opportunità di studio, di lavoro, di vita sociale. Fin qui, le persone con la sindrome di Down hanno guadagnato posizioni grazie al lavoro incessante delle famiglie, a un associazionismo di valore e a una propaganda coraggiosa. Ma oltre, nella relazione con mondo, è il mondo che manca, che le lascia indietro. Questo video è un’avanguardia preziosa che si porta dietro un esercito di persone disabili fin troppo frammentato. E su questa frammentazione interna dovremmo riflettere. “Non lasciate indietro nessuno”, dice il messaggio. A chi è rivolto? Ai Paesi, alle istituzioni certamente. E a ciascuno di noi. «L’inclusione non deve dipendere dalle competenze del singolo, ma è un processo che coinvolge tutti» commenta su Facebook Martina Fuga, vicepresidente di Pianeta Down e responsabile della comunicazione di CoorDown. È un monito, un grido corale immenso che va oltre il “bisogno” di opportunità; il grido vuol dire “ho diritto pieno” alle opportunità.«Se è vero che c’è una possibilità di imparare per tutti, – continua Fuga – che c’è un’autonomia possibile per tutti, che c’è una mansione lavorativa per ognuno, allora il punto non sono le abilità, il punto non è quanto io sia brava ad adattarmi al mondo, ma quanto il mondo mi fa spazio e mi viene incontro. Il punto sono le opportunità che devono essere a misura di tutti, affinché tutti trovino il loro posto nel mondo». È il concetto di Progettazione Universale su cui ruota la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, un’utopia per alcuni, una rivoluzione scomoda in realtà, perché sposta le nostre abitudini. È una grande novità che fiorisce nel pensiero contemporaneo ma che nella nostra società ha l’effetto di un sassolino nella scarpa. Per pigrizia, per un’ignoranza che non è più scusabile, nient’altro che questo. Paradossalmente, nella società odierna, evoluta ma cinica, la Progettazione Universale è diventata la più grande barriera da abbattere; per far finta di cambiare per non cambiare nulla; per stare più comodi relegando la vita delle persone disabili in meravigliosi giardini, quando va bene, con risposte speciali a bisogni speciali. «Alla fine dei video siete tristi? Ebbene, vi do una notizia, venire sbeffeggiati sui social o esclusi nella vita è triste! – chiosa Martina Fuga – Se volete i sorrisi andate a guardare i bambini e le mamme che fanno il karaoke, o bambini e per fortuna qualche ragazzo che cantano i Queen a squarciagola, ma non fermiamoci lì, ricordiamoci che con quei video non cambieremo una virgola. Lì stiamo solo dicendo che siamo orgogliosi di chi siamo, che è vero, ma non stiamo chiedendo nulla. Alla fine del video avete ricevuto un pugno nello stomaco? Bene, era quello che volevamo. Volevamo farvi riflettere e chiedervi di farci un po’ di spazio vicino a voi. Alziamo la voce, chiediamo rispetto».
Rispetto. È questo il punto di non ritorno

Tratto da invisibili.corriere.it


mercoledì 20 marzo 2019

Oltre la disabilità: protagonista in due film, adesso mostra la società che vorremmo

18 MARZO 2019 di                                                                                                                               
In questo blog blog ci siamo spesso occupati di teatro, libri e cinema attinenti al tema della disabilità. E noi di Invisibili ci siamo più volte trovati a pensare che sarebbe stato bello, un giorno, vedere uno spettacolo o un film in cui la disabilità degli attori sarebbe stata del tutto irrilevante ai fini del ruolo interpretato e della storia narrata. Quel giorno – ci siamo detti – avremo la prova che le barriere sono state davvero abbattute anche nel campo dell’arte. Adesso quel giorno è arrivato. Al cinema, con un piccolo film italiano, prezioso nella sua semplicità e anche divertente.                                              Una commedia per ragazzi, “Detective per caso”, diretto da Giorgio Romano, autore anche della sceneggiatura insieme ad Aurora Piaggesi, su soggetto di Daniela Alleruzzo. Ed è una commedia investigativa affidata ad un cast di giovani attori, tutti professionisti e ancora sconosciuti, alcuni con qualche forma di disabilità. Ma la cosa interessante, potremmo dire persino rivoluzionaria, è che in ogni caso la singola disabilità non ha nulla a che vedere con i ruoli che interpretano. Sono, infatti, ventenni come tanti. Che lavorano, vivono da soli, si fidanzano, litigano, fanno l’amore, si scatenano in discoteca e si mettono nei guai. I protagonisti di questo film, dalla vulcanica Emanuela Annini, ovvero la Giulia appassionata di misteri, allo spassosissimo Giordano Capparucci, nei panni di un ipocondriaco molto ansioso, soprannominato Panico dagli amici, si contendono il trofeo per le migliori risate con i ben più noti Stefano Fresi e Massimiliano Bruno, poliziotti sopra le righe protagonisti di un prologo esilarante. Ma sono tanti gli attori famosi che hanno accettato un cameo nel film, da Claudia Gerini a Valerio Mastandrea, da Paola Cortellesi e Paola Tiziana Cruciani a Mirko Frezza, Stella Egitto e Lillo, tutti con una partecipazione solidale al progetto di “Detective per caso” uscito oggi nelle sale italiane. Nato da un’idea di Daniela Alleruzzo, presidente dell’Accademia L’Arte nel Cuore, in cui si sono formati i giovani attori protagonisti del film. Se “Detective per caso” ci mostra la società come vorremmo che fosse, cioè una società in cui la disabilità ormai non si avverte nemmeno più, tanto assorbita nella normalità del quotidiano, un altro film italiano altrettanto prezioso, “Dafne”, ci parla di una società che è già, quella in cui una ragazza adulta con Sindrome di Down lavora in totale autonomia, ha i suoi amici, un fidanzato e un conto in banca personale. E mostra tutta la sua determinazione quando la morte improvvisa della madre le sconvolge la vita, dal punto di vista emotivo per il dolore profondo della perdita, ma anche dal punto di vista pratico dato che Dafne dovrà cominciare a prendersi cura del padre anziano, rimasto vedovo e sopraffatto dal lutto. Il film, diretto da Federico Bondi, ribalta dunque il punto di vista su un tema delicato come il dopo di noi e lo fa con grazia autentica e discrezione, mettendosi da parte e facendosi specchio di una protagonista potente, interpretata da Carolina Raspanti. Lei no, non è un’attrice professionista come sono invece i suoi colleghi di “Detective per caso”, ma ha una verità di sguardi, gesti e sentimenti che restituiscono sfumature importanti di una storia che non si dimentica. Lei, che è nata nel 1984 a Lugo di Romagna con la Sindrome di Down, si è brillantemente diplomata ed è stata assunta presso l’Ipercoop di Lugo, dove tuttora lavora. Proprio come Dafne. E che ha scritto due romanzi autobiografici che presenta spesso in giro per l’Italia: “Questa è la mia vita” e “Incontrarsi e conoscersi: ecco il mondo di Carolina”. Il regista ha definito il film, che uscirà nelle sale italiane il 21 marzo in coincidenza con la Giornata mondiale delle Persone con Sindrome di Down, «la parabola di un rapporto padre-figlia che offre un’opportunità per entrambi, la storia di una “ripresa” come ottimismo e volontà di superamento». E questo ottimismo si respira, tra dolore, ironia – cifra identificativa di Dafne/Carolina – e amore. Un amore che è a due sensi, andata e ritorno, offerta e dono. Nelle note di regia, Federico Bondi scrive ancora che «la “realtà” è stata l’ispirazione e il metodo mentre scrivevo e mentre giravo. Non è stata Carolina ad entrare nel film (non ha mai letto una sola pagina della sceneggiatura), è stato il film a piegarsi a lei». E questo è ulteriore garanzia, per noi che guardiamo, che ciò che vediamo è non solo possibile, ma reale. E sta accadendo già adesso.
Tratto da invisibili.corriere.it

«Che bella donna, poverina!». Tra cliché negativi, adaptive fashion e sfilate disability friendly nell’Italia del 2019

di 
Che bella donna, poverina! Mi capita spesso di ascoltare questa frase, mentre incrocio le persone per la strada. L’ultima volta, ieri. Ogni volta che succede, mi provoca un sorriso amaro. Amaro non perché mi ferisca, ma per il fatto che dimostri come la nostra cultura sia ancora incastrata tra mille cliché. La mia vera amarezza è questa. Non sono da buttar via, ma non mi considero neanche così attraente da focalizzare tanta attenzione. Come mai, allora, si concentrano tanto su di me? Poi, poverina, perché? Col tempo, è arrivata la mia personale interpretazione a queste domande che giravano in testa da tanto. Magari sbaglierò, ma molti si meravigliano ancora quando una donna che, come me, usa la carrozzina per muoversi dedica il suo tempo anche a migliorare il proprio aspetto esteriore attraverso il modo di vestirsi, muoversi – per quel che posso! – e presentarsi. Insomma, che mi interessino abbigliamento, trucco, acconciature ecc. Secondo me, questo atteggiamento rispecchia alcuni stereotipi errati e, purtroppo, ancora molto diffusi: Di norma, una donna con disabilità non cura molto il suo look. D’altronde, perché dovrebbe? Non deve mica raggiungere successi professionali e personali. Relazioni amorose? Non ne parliamo proprio. È vero che la moda sta iniziando a capire il mercato potenziale e a rappresentare la bellezza nelle sue diverse forme, etnie e disabilità. Le vedremo, senz’altro, durante la settimana della moda di Milano (19 – 25 febbraio 2019). La percezione collettiva è, però, ancora quella del “fenomeno”. Attualmente, almeno nel nostro Paese, credo che siamo ancora agli esordi. In Italia, ci sono sì molti concorsi di bellezza dedicati alle persone con disabilità – per lo più, donne – e si parla molto di Adaptive Fashion, cioè quell'abbigliamento rivolto ad acquirenti con esigenze cosiddette “speciali” perché convivono con protesi, sedie a rotelle, sacchetti della colostomia, dispositivi per l’insulina ecc. Una modella fuori dai consueti canoni di bellezza, però, continua a destare tanta meraviglia e compassione nel grande pubblico. No, non sto descrivendo il Medioevo. Per i più, sembra ancora strano che una donna con disabilità non voglia rinunciare a sentirsi desiderabile e affascinante. Certo è che, a piccoli passi, si sta creando una rappresentazione inclusiva del corpo umano grazie a défilé, magazine platinati e campagne pubblicitarie che propongono modelli e modelle lontani dalla bellezza convenzionale perché caratterizzati da vitiligine, albinismo, taglie forti, colore della pelle, disabilità motorie, sindrome di down ecc. Se nel resto del mondo, tali rivoluzioni estetiche stanno aprendo la strada anche ad altre riflessioni sulla vita reale di queste persone, in Italia il dibattito sembra ancora abbastanza spento se non su riviste specializzate. Significativo è, certamente, il caso di Bebe Vio che, oltre ad essere campionessa paralimpica e portavoce dell’ottimismo nonostante le inevitabili difficoltà con la sua oramai nota frase “La vita è una figata!”, è conosciuta da tutti anche come ambasciatrice ufficiale di una nota maison di alta moda e come volto di varie campagne pubblicitarie. Milioni di telespettatori, poi, hanno conosciuto Chiara Bordi perché è stata la prima ragazza con una protesi a partecipare alla finalissima del concorso di Miss Italia nel 2018. Queste due giovani donne sono esempi da rispettare se non per altro perché hanno attratto molto l’attenzione dei media e, di conseguenza, del grande pubblico aprendo il discorso. È anche importantissimo che si muovano i primi passi verso una moda più Disability Friendly e che, com’è già successo, si organizzino eventi nei quali la passerella accolga contemporaneamente modelli con e senza disabilità.Tutto questo, però, non basta. La vita di tutti i giorni è un’altra cosa. E nella vita di tutti i giorni si può parlare di inclusione a tutti gli effetti soltanto quando ciò che ha spezzato le convenzioni non fa più notizia. Nel frattempo, continuo a sorridere ogni volta che, senza conoscere ciò che sono e quello che faccio, mi definiscono poverina. Tuttavia, per cambiare la percezione della disabilità, non escludo di potermi girare all’improvviso per chiedere: E voi, miei cari, cosa avete realizzato nella vostra vita senza disabilità?
Tratto da invisibili.corriere.it

venerdì 1 febbraio 2019

Disabilità e lavoro: cinque regole per rimediare a un fallimento


1 FEBBRAIO 2019 di Simone Fanti | @simfanti

Solo il 18% dei disabili è occupato in un lavoro rispetto al 58,7% del resto della popolazione. Sta tutto in questi numeri il “fallimento” di una legge nata con grandi obiettivi, tra le più avanzate in Europa, che, però, non è stata in grado di attuare un cambiamento culturale tra gli imprenditori. La legge 68/99 è diventata praticamente lettera morta, poco efficace, spesso inapplicata forse perché non sono state comprese fino in fondo le sue potenzialità, forse perché è più semplice “pagare le multe” piuttosto che accettare la sfida di creare occupazione. Le norme ci sono, manca la cultura, si diceva. Alcuni tentativi per avvicinare il mondo degli imprenditori a quello dei disabili sono stati fatti, da ultimo l’apprezzabile lavoro svolto con il un canale dedicato al mondo della disabilità sul social network principe per i professionisti Linkedin. .

E anche Invisibili ha deciso di insistere sul tema chiamando a collaborare Daniele Regolo, fondatore di Jobmetoo, società di consulenza e recruiting di persone con disabilità e appartenenti alle categorie protette, che stimolato sul tema ha proposto un piano di azione per il superamento della legge 68. Una provocazione? Anche, ma soprattutto tanta sostanza. Apriamo il dibattito.
5 PROPOSTE DI JOBMETOO
1) Studiare un percorso verso la graduale abolizione dell’obbligo di assunzione delle persone con disabilità. È fin troppo evidente che dal mondo delle imprese tale imposizione viene recepita, e di conseguenza elaborata, con riluttanza, sfiducia, pessimismo. Le imprese più virtuose, quelle che sono disposte ad assumere al di là dell’obbligo, avvertono comunque un peso “morale” forte. Al contempo, il candidato che entra in azienda con questi presupposti non può aspettarsi un trattamento veramente alla pari degli altri dipendenti. Eliminare l’obbligo significa rimodulare l’incontro tra azienda e candidato su una base diversa e più moderna, soprattutto più equa. L’incontro deve avvenire esclusivamente sulle competenze e sulla reale compatibilità tra condizione del lavoratore e necessità dell’azienda. Il sistema dovrebbe diventare premiante: tanto più l’Azienda assume persone con disabilità, tanto maggiori saranno gli incentivi e le agevolazioni fiscali.
2) Rendere la normativa anti discriminazione molto stringente. Deve inoltre essere riscritta rovesciando la prospettiva attuale: nessun lavoratore è considerato da tutelare o proteggere – in riferimento alla sua autodeterminazione – ma nessun lavoratore può essere discriminato. Al contempo occorre istituire un fondo che consenta al lavoratore discriminato di poter tutelare la propria posizione. Il tutto nei limiti dell’”accomodamento ragionevole”, uno strumento estremamente avanzato che deve essere maggiormente diffuso ed esteso.
3) Obbligatorietà di un Disability manager a supporto delle Aziende private. Figura autonoma rispetto agli altri manager, il Disability manager rappresenta lo strumento per includere la disabilità nella cultura aziendale. Il vecchio processo, che vedeva “il disabile che entra in azienda accompagnato da esperti, psicologi, associazioni, tutor, interpreti…” deve evolvere in un nuovo processo: “il disabile viene accolto in azienda, nella quale entra con le proprie gambe e senza essere accompagnato (fin quando possibile)”. Il Disability manager è colui che opera per creare le condizioni affinché il lavoratore disabile possa agire nel pieno delle sue potenzialità, diventando una risorsa produttiva, e parimenti aiuta l’Azienda di cui fa parte a capire e gestire la disabilità in maniera naturale e senza traumi.
4) Creare un fondo ad hoc per gli “Accomodamenti ragionevoli” ovvero per l’acquisto e il finanziamento di strumenti, soluzioni, ausili e quanto sia necessario per consentire alla persona con disabilità di esprimere il suo potenziale e le sue abilità nel contesto aziendale. L’accomodamento ragionevole è stato Introdotto dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ripreso dalla Direttiva 2000/78/CE e ridefinito in Italia dal D. Lgs. 151/15, rappresenta l’anello mancante per mettere il lavoratore con disabilità nelle condizioni di agire in condizioni di pari opportunità.
5) Valorizzare la rete e i servizi territoriali. Il grande patrimonio rappresentato dalle Associazioni di disabili, che posseggono tra l’altro un know how di alto valore (spesso non adeguatamente noto), e dal mondo delle cooperative (canali ideali per gestire, dal punto di vista lavorativo, le disabilità più complesse attraverso servizi che forniscono alle aziende in outsourcing, come avviene oggi con ex Art. 14) riceve impulso dalla presenza del Disability manager che, dalla sua posizione privilegiata, conosce queste realtà e può supportarle valorizzandole al meglio, nel segno di un legame sempre più forte tra Azienda e territorio di riferimento.

Tratto da invisibili.corriere.it

domenica 27 gennaio 2019

Vite non degne della vita. L’Olocausto nasce per i disabili


25 GENNAIO 2013 di 
PER NON DIMENTICARE... MAI!
Tutto cominciò da quelle parole: “Vite indegne di essere vissute”. L’Olocausto nasce da lì. Lo sterminio che ha sconvolto il ‘900 europeo parte da quella parola: “indegne”. Ernst aveva 14 anni, veniva dalla comunità Rom, era in un ospedale psichiatrico. Un giorno regalò a un infermiere che gli era simpatico una foto con la dedica ‘In memoria’: “Tanto io non vivo a lungo. Spero che quando muoio ci sia tu, così mi metti bene nella bara”. Il giorno dopo lo avevano ucciso. Quell’infermiere non c’era. Hurbinek dimostrava tre anni, era paralizzato dalle reni in giu. Solo Henek, 15 anni, sapeva capirlo, stargli vicino, dargli da mangiare, pulirlo. Un giorno Henke annunciò: “Hurbinek ha detto una parola”. Non si capiva bene quale, ma aveva parlato. Quella parola rimase segreta. Morì “ai primi di marzo, libero ma non redento. Nulla resta di lui”, solo le parole del racconto di Primo Levi, altrimenti nessuno, proprio nessuno saprebbe di Hurbinek, che forse “aveva tre anni, e forse era nato ad Auschwitz e non aveva mai visto un albero”.
Le vite non degne della vita. Quelle di Ernst e di Hurbinek. Perché, come sempre, bisogna dare un volto e un nome e una storia, altrimenti la Storia rimane solo numeri e dati e documenti. La Giornata della Memoria nel ricordo della Shoah ci parla delle persone. Una per una. A contarne milioni. La follia nazista è partita dalla “vite indegne”: le persone con disabilità sono state le prime sulle quali è stato sperimentato l’orrore, a morire in massa, rinchiusi in una stanza con quel gas che entrava nel loro corpo, ma prima ancora uccisi con iniezioni. Non solo persone con disabilità intellettiva e malati psichici, ma anche disabili fisici e con malattie genetiche. L’idea del gas nacque per loro e fu poi adottata nei lager. Decine di migliaia, fra il ’39 e il ’41. Se ne contano oltre 70 mila, fra i quali 5 mila bambini. Ai quali se ne devono aggiungere almeno altri 250 mila dopo quella data, ma le cifre possono essere solo per difetto. Prima di ebrei, uomini e donne delle comunità Rom e omosessuali, oppositori politici. Prima di tutti, color che sono considerati un ‘peso sociale’, i disabili. Per approfondire, ci si può riferire al sito Olokaustos o su Superando, partendo da quanto pubblicato oggi, con approfondimento di Slvia Cutrera.
“Ausmerzen ha un suono dolce e un’origine popolare. È una parola di pastori, sa di terra, ne senti l’odore. Ha un suono dolce ma significa qualcosa di duro, che va fatto a marzo. Prima della transumanza, gli agnelli, le pecore che non reggono la marcia, vanno soppressi”. Marco Paolini con il suo monologo “Ausmerzen – Vite indegne di essere vissute”, trasmesso due anni fa da La7, è stato capace di porre all’attenzione di milioni di persone l’Olocausto dimenticato dei disabili. Quello che ha fatto lui in quelle poche decine di minuti di racconto dell’orrore non lo hanno fatto anni di storiografia, dibattiti e convegni. Quel monologo (ora riproposto intelligentemente da Einaudi in un cofanetto con Dvd con contenuti extra e un libro con lettere e storie, curati dal fratello Mario) andrebbe adottato nelle scuole.
Prima la sterilizzazione, già dal 1933, che non cominciò certo in Germania: Danimarca, Svezia, Finlandia e Norvegia erano le tristi avanguardie con leggi non diverse da quella tedesca, dove furono sterilizzate quasi 400 mila persone a partire dal ’34. Poi, nel ’39, è Hitler stesso con una lettera ad autorizzare i medici “a concedere la morte per grazia ai malati considerati incurabili secondo l’umano giudizio”. L’inizio della fine. Parte l’Aktion T4, l’operazione di eutanasia forzata che prende il nome da Tiergartenstrasse 4, l’indirizzo di Berlino sede dell’apparato organizzativo, in un villino espropriato a una famiglia ebrea, e poi, dopo il ’41, l’Aktion 14F13, ancora più selvaggia e segreta. Sconvolgente perché non coinvolge le SS, la gestapo, i militari feroci che sono nell’immaginario collettivo nazista. No. Ci sono medici e infermieri a infliggere la morte e pene immani, giuristi e avvocati a giustificarla, inservienti e operai a dare la loro opera. Centinaia, probabilmente ancor più. Ecco un altro motivo del silenzio, durato fino agli ‘90. Era parte della società civile a essere protagonista del primo Olocausto nazista. La fine degli anni ’20 è stato uno dei periodi più difficili dal punto di vista economico e fu gioco facile far leva anche sui costi sociali delle persone con disabilità o malattie gravi. La propaganda di regime lavorò in questa direzione: nelle scuole (giravano problemi tipo questo: “Un malato di mente costa circa 4 marchi al giorno, un invalido 5,5 marchi, un delinquente 3,5 marchi. In molti casi un funzionario pubblico guadagna al giorno 4 marchi, un impiegato appena 3,5 marchi, un operaio… a) rappresenta graficamente queste cifre…), con manifesti (celebre uno dove un operaio portava sulle spalle il peso di persone disabili) e informazioni martellanti sui costi sociali delle persone con disabilità, attraverso film (l’ultimo è addirittura del ’41, poco prima di porre fine alla parte “pubblica” di Aktion T4: “Io accuso”, dove una donna con sclerosi multipla chiede al marito di ucciderla prima di soffrire troppo e lui viene poi assolto nel processo). Ancora squarci che fanno pensare. La Aktion T4, che continuò però, come già detto, in maniera ancor più brutale nei lager e nei luoghi che dovevano essere di cura, si concluse probabilmente per la nascente opposizione pubblica, anche da parte delle Chiese cattolica e protestante, per la risonanza che ebbero gli omicidi di massa: a centinaia di famiglie arrivavano lettere con certificati di morte per motivi fasulli, spesso uguali e negli stessi giorni, autobus trasportavano persone che scomparivano dopo che si innalzava il fumo dai forni crematori. Viene da chiedersi allora: se fosse successo anche in seguito, per le deportazioni di massa e lo sterminio della popolazione ebrea, di persone omosessuali o della comunità Rom, sarebbe magari cambiato qualcosa? Hurbinek che ha solo il nome e Ernst Lossa, al quale è dedicato il Museo del Giocattolo di Napoli, sono immensi testimoni delle nostre paure verso la disabilità e le diversità, che a volte purtroppo tornano. A questo serve la memoria, a farci diventare migliori.
 Tratto da invisibili.corriere.it