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Ogni individuo sia valorizzato in quanto persona e non per quello che produce

giovedì 27 settembre 2012

Mendicanti: esposti, sfruttati e ignorati

Era da tempo che cresceva dentro di me il desiderio di scriverne. Ma non trovavo la forza, e neppure le parole. Solo le immagini, nitide e dolorose, dentro i miei occhi, quasi ogni giorno. Oggi ne parlo, perché ho un buon motivo, almeno una notizia positiva che viene da Torino, dove la polizia municipale ha fermato una intera famiglia di sfruttatori di mendicanti invalidi, costretti a esporre le proprie membra deformi in cambio di elemosina, il cui ricavato naturalmente veniva loro interamente sottratto. Analoga operazione oggi a Milano, con grande spiegamento di forze della polizia municipale, e conferenza stampa dell’assessore Granelli e del comandante dei vigili Mastrangelo, proprio mentre usciva nel blog il mio pezzo. Finalmente è un segnale forte, anche se solo di carattere poliziesco, rispetto a un fenomeno odioso e complesso, sul quale vorrei riflettere con voi, lettori di “Invisibili”. La foto che campeggia sopra il titolo ci riguarda, infatti. E’ un uomo, coperto di stracci, dai quali spunta un moncone di braccio, accovacciato sul marciapiede, mentre verso di lui avanzano passanti indaffarati e ben vestiti. Non sappiamo se lo degneranno di uno sguardo. Forse no. Ma se lo faranno sarà per un istante, giusto il tempo del ribrezzo. In un angolo della mente un pensiero, forse: “Che schifo. Guarda come è ridotto. Non gli do neppure un centesimo, tanto è sfruttato dai soliti impuniti”. E poi via, passando oltre in fretta.
Oppure in automobile, agli incroci. Quando un mendicante zoppo, sciancato, a volte addirittura con le gambe spezzate e rovesciate in un angolo innaturale (chi non li ha visti?), si avvicina al finestrino e implora una moneta. Speriamo che venga subito il verde, lo ignoriamo, ci dà fastidio, forse vorremmo che qualcuno intervenisse per toglierlo dalla nostra vista. Ma intanto quella deformità, quella disabilità esposta in modo violento e trucido ci assale, entra nella mente e scava.
Invalido e mendicante. Mendicante perché invalido. Una equazione mentale subdola, triste, squallida, ma che fa presa sull’inconscio e riduce la distanza fra questa aberrazione che nasce dalla miseria e dalla turpitudine morale degli sfruttatori, e l’altro mondo della disabilità, quello delle persone come me, come tutti coloro, e sono tanti, che con le deformità del corpo, o con i deficit dei sensi, o della mente, convivono da sempre, inseriti, più o meno bene, in questa società.
Ho incrociato spesso, nel centro di Milano, a pochi metri dal Duomo, mendicanti abbarbicati a una sgangherata sedia a rotelle. Rottami umani su rottami materiali. Ho notato che mi guardavano con curiosità. Forse si chiedevano come facessi io a vivere bene, dignitosamente, pur avendo un handicap simile al loro. Ma neppure io sono riuscito a superare il diaframma che separa i nostri mondi. Ho sentito crescere dentro di me rabbia e tristezza, ma non ho fatto nulla di concreto per impedire che questa esposizione indecente delle membra continuasse. Né come giornalista, né come cittadino.
Chi sfrutta il corpo mutilato (spesso maltrattato apposta, con persone ridotte in vera schiavitù) agisce proprio nella consapevolezza di potersi muovere in questa terra di nessuno, ai confini della realtà. Il danno per queste persone è evidente e irreparabile, anche dopo l’arresto degli sfruttatori. Ma il danno complessivo all’immagine sociale della disabilità è altrettanto disastroso. Si avalla l’idea, inconscia, che una persona invalida debba e possa mendicare per vivere. Debba e possa esporre il proprio corpo deforme o mutilato per ottenere una mercede. E’ una metafora pericolosa e orrenda di quanto, in modo più sottile, avviene quasi ogni giorno, ad altri livelli, in altre questue sociali.
La verità è che di questi mendicanti, al massimo, si occupa la polizia. E invece, in quanto persone con disabilità, dovrebbero essere tolte dal marciapiede, assistite, curate, riabilitate, e rimesse in condizione di vivere dignitosamente, qui nel nostro Paese o affidate ai centri di riabilitazione e di cura dei paesi di origine, seguendo le regole dell’Onu, ma anche le nostre umane regole di convivenza civile. I loro nomi non li conosceremo mai. I loro volti resteranno sempre impressi nella nostra memoria. La tratta degli invalidi è un’offesa a tutte le persone con disabilità. Non lasciamo la loro sorte in mano soltanto ai vigili urbani.
Tratto da www.corriere.it\invisibili

martedì 18 settembre 2012

Non "tagliate" il mio educatore


Tratto da www.corriere.it

LA LETTERA DI FRANCESCO, 17 ANNI, DISABILE

Non «tagliate» il mio educatore

«A scuola senza di lui sarò di nuovo quello che ero: un ragazzo che non può far niente e che nessuno ascolta»

La denuncia era arrivata nei giorni scorsi dai presidi delle scuole milanesi: tagliata l'assistenza ai disabili, ridotte le ore degli educatori fino al sessanta per cento. Francesco, studente con disabilità di diciassette anni dell'Istituto tecnico Albe Steiner ha scritto al Corriere dopo aver saputo che il suo educatore non riavrà lo stesso incarico. Il Comune intanto ha spiegato: «Il budget non è stato tagliato ma il servizio è stato riorganizzato e i costi sono saliti. Recupereremo altre risorse».
Caro direttore, sono un ragazzo con disabilità, ho 17 anni e so che lottare è la regola numero uno, se vuoi sopravvivere. Per questo vi scrivo. L'anno scorso i miei genitori sono ricorsi in tribunale contro il ministero dell'Istruzione e, vincendo la causa, hanno ottenuto il ripristino delle ore di sostegno cui avevo diritto. Ma... la tregua è stata breve. Quest'anno, quando è iniziata la scuola, ero in ospedale. Però le notizie mi hanno raggiunto ugualmente. Tutti i ragazzi con disabilità di Milano si sono ritrovati con la metà delle ore di educatore stanziate l'anno scorso. E il «mio» educatore, Michele, un educatore che per me era diventato un fratello maggiore, un ragazzo che mi ha sempre difeso, che sapeva prendere in giro me e i miei compagni facendomi parlare con loro, non verrà più a scuola.

Lui, che considerava un «privilegio» poter lavorare con me (così mi diceva!), proprio lui, quest'anno è rimasto senza lavoro. E nessuno si è preoccupato di spiegargli perché. So che martedì (oggi, ndr) il sindaco parlerà con i rappresentanti di chi ha delle disabilità e si cercherà un accordo. Ma non sono tranquillo. Anzi, sono quasi certo che la conclusione sarà sempre la solita: si parlerà di «emergenza», invece di dirmi «ingiustizia». Ho parlato con Michele che ha cercato di rassicurarmi: «Non te preoccupe, Fra'... che ce ne frega...? Noi restiamo amici. Le leggi non c'entrano con noi». Ho parlato con la mamma che mi ha detto, come se fosse tutto normale: «Non preoccuparti, è un periodo difficile, ma tutto si sistemerà...». Ho letto sul giornale che il Comune risponde dicendo: «Non preoccupatevi, i fondi stanziati sono sempre quelli...». E allora...??? Perché mi preoccupo...?????? Ecco perché mi preoccupo: perché a scuola ci vado io, non loro; e a scuola, senza Michele, tornerò ad essere quello che sono senza di lui: un ragazzo che non può fare niente da solo e che nessuno ascolta. Ma io, ancora, non voglio stare zitto. Perché ancora nessuno è riuscito a togliermi il diritto ad essere arrabbiato!
Francesco Gallone
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L'educatore, l'amico...il fratello maggiore


di Simone Fanti

Francesco Gallone, 17 anni, studente all’Istituto tecnico Albe Steiner(avrete già letto la sua lettera accorata pubblicata dal Corriere della Sera in prima pagina) è un ragazzo con disabilità che come tanti suoi coetanei si appresta a tornare tra i banchi di scuola. Francesco è un ragazzo che, nonostante la disabilità, vuole vivere la sua vita alla pari, vuole integrarsi nella società. Francesco è una delle vittime dei tagli all’assistenza dei disabili: al suo ritorno a scuola non troverà più il suo educatore, Michele, che per tanti mesi l’ha aiutato a vivere con maggiore serenità la sua formazione e crescita (a tutto tondo, non solo quella scolastica). Una scelta dettata, secondo gli amministratori pubblici, dall’emergenza e dai necessari tagli alla spesa scolastica che diventa, parole di Francesco, un’«ingiustizia». Difficile capire il profondo senso di questa parola se non si vive la disabilità. L’educatore per molti è semplicemente l’assistente di sostegno nel percorso scolastico, per molti altri è l’amico – troppo spesso l’unico -, o «un fratello maggiore, un ragazzo che mi ha sempre difeso, che sapeva prendere in giro me e i miei compagni facendomi parlare con loro», scrive Francesco.
Non so se vi sia mai capitato nella vita, e mi auguro per voi che non sia mai successo, di non potervi muovere, di essere impediti da un piccolo o grande problema, di aver avuto bisogno di una mano amica per vivere. A me sì. Dopo l’incidente motociclistico, nell’immobilità della mia condizione, ho dovuto chiedere l’aiuto di chi mi circondava anche per le più banali impellenze. Dopo i primi momenti in cui tutti ti sono accanto l’attenzione scema e rimani solo, gli amici ti vengono a far visita sempre più di rado, l’amore non sempre riesce a colmare il gap che l’handicap ha creato con la vita e spesso si spegne e si allontana… resti solo. Solo con i tuoi pensieri, le tue paure, i tuoi interrogativi. Ad accompagnarti in questi primi passi ci sono solo i tuoi familiari che spesso devono essere a loro volta aiutati a superare un trauma troppo grande per loro.
Ti senti fragile, indifeso, ti senti perso e senza punti di riferimento. Ripensando a quello che ho vissuto rileggo la lettera di Gallone e ne colgo le sfumature le paure. Chi è quindi Michele per Francesco? Non certo solo quella persona, indispensabile, che lo aiutava ad andare in bagno o negli spostamenti. Michele, l’assistente-educatore, non era solo il braccio, era l’amico che spesso non si ha – perché la società, specie in giovane età rifugge dalla disabilità-, era il fratello maggiore che difende e protegge. Era il mediatore che con un sorriso avvicinava la persona con disabilità al mondo dei compagni. Era la persona di fiducia a cui la famiglia affidava il figlio per il tempo necessario a ricaricare le batterie.
L’educatore Michele era il simbolo concreto dell’inclusione. Parola abusata in mille contesti che qui assume un valore concreto, fisico… come si fa a parlare di integrazione se non se ne capisce il reale valore? Francesco il tuo grido «Tornerò solo» è stato raccolto dal Web che gli farà da eco fino a quando il valore delle persone non prevarrà sul valore del denaro. Noi invisibili facciamo nostro il tuo grido, caro Francesco. E lo rilanciamo perché chi ha reale bisogno non sia mai lasciato solo.
Tratto da www.corriere.it\Invisibili

mercoledì 12 settembre 2012

I “gravissimi”: che noia!

«L’insistenza a ripresentare periodicamente il problema dei cosiddetti “gravissimi” – scrive Giorgio Genta – ovvero quelle persone con disabilità complesse che richiedono supporti assistenziali di particolare qualità, intensità e durata, – è generata dall’assoluta mancanza di risposte pratiche alle loro esigenze. E a quelle delle loro famiglie» Quello tra la perseveranza e la cocciuta testardaggine è un confine sottile, molto sottile, che viene percepito in maniera diversa a seconda della più o meno positiva predisposizione all’ascoltare (o al vedere) di chi lo valuta. E l’insistenza di chi scrive a ripresentare periodicamente il problema dei cosiddetti “gravissimi” – ovvero di quelle persone con disabilità complesse che richiedono supporti assistenziali di particolare qualità, intensità e durata – è generata dall’assoluta mancanza di risposte pratiche alle loro esigenze. E a quelle delle loro famiglie. Risposte pratiche che vadano al di la del servizio televisivo bello ed episodico, andato in onda alle 23.35, dell’articolo di mezza pagina sul quotidiano prestigioso (magari a firma di chi vanta vaste esperienze professionali di gastronomia e filosofia zen…), del discorsetto da “autunno freddo” e “campagna elettorale calda” del politico che non ha avuto il coraggio – e la convenienza, dicono i maligni – di resistere alle pressioni delle più svariate lobby professionali nel finalizzare i quattro spiccioli che restano (o che restavano? Forse ora non ce ne sono davvero più!) in fondo al “borsellino governativo” nazionale o locale. Oppure, se è stato virtuosamente resistente, ha “girato” alle famiglie solo qualche decina di euro al mese, con mille steccati burocratici e livelli reddituali interposti.
Viene talvolta il sospetto che esistano ancora persone che vedono la disabilità, specialmente quella assai grave, come un “atto di Dio” al quale Dio solo può, volendo, porre rimedio, anche in termini economici e assistenziali e mascherano questa angusta visione da carità pelosa confessionale (anche laicamente confessionale), dietro tecnicismi ed equilibrismi verbali. Altre considerano invece la disabilità come una nuova frontiera della finanza creativa, ovvero come l’occasione di arricchirsi a danno e dolore di chi dalla vita ha avuto assai poco, strappandogli quel poco. E non si tratta della vita stessa ma – peggio se possibile – della dignità e della speranza. Altre ancora inventano slogan fantasiosi, tipo «se tutti pagano le tasse, i servizi ripagano tutti», ma in realtà le tasse aumentano costantemente, mentre la qualità, l’intensità e l’appropriatezza dei servizi decrescono. Soprattutto per le persone con disabilità gravissima. Cosa comporti davvero, in termini “umani”, la disabilità gravissima in famiglia è cosa ignota ai più. Anche a molte persone con disabilità che definirei “più lieve”, se avessi il coraggio di scriverlo. Questi “amici o amiche con disabilità” ritengono, del tutto onestamente in cuor loro, che non esista una scala “di peggiorità”, che si sia tutti uguali di fronte alla disabilità, che il problema eventualmente sia solo quello della necessità di un maggior supporto. Pochissimi pensano al lavoro e alla fatica esistenziale della famiglia con disabilità gravissima, che durano magari da 25-30-40 anni. Cinquantamila ore di sonno perse (5 ore per notte per 365 notti, per, diciamo, una trentina d’anni), un milione di euro non guadagnati, una decina di patologie muscolari, ossee e intellettivo-relazionali a carico del caregiver familiare primario e della famiglia tutta. Al confronto, essere passati nel tritacarne equivale a una “grattatina” ed  essere arsi sulla graticola come San Lorenzo è una piacevole abbronzatura. Ecco perché sarò noiosamente ripetitivo, schivato da amici e conoscenti e ripetutamente monotematico: i “gravissimi” e le loro famiglie soprattutto, prima di tutto, sempre.

Tratto da superando.it

sabato 8 settembre 2012

Le cybergambe e il sogno del cammino

 di Simone Fanti

Tornare a camminare. Qualche volta ci penso! Anzi ci penso tutte le volte che arrivo ai piedi di una scalinata. Tutte le volte che vorrei prendere a calci qualche furbone che – maleducato – mi parcheggia così vicino che non riesco a salire in macchina. Sì lo ammetto tornare in piedi a guardare il mondo dal mio metro e ottanta non mi dispiacerebbe affatto. Quindi immaginate il mio stato d’animo quando sono stato invitato a vedere il Rewalk, un esoscheletro di ultima generazione, che permette ai mielolesi di camminare. Mi sono presentato all’appuntamento con un misto di speranza e sana incredulità… Eppur si muove, cammina, fa le scale… mi verrebbe da dire. Ho visto con i miei occhi Manuela Migliaccio, una splendida trentenne napoletana,con una lesione mielica lombare, alzarsi dalla carrozzina per iniziare il suo cammino. Con un andamento non proprio elegante e sciolto, ma rigido e a scatti. Tuttavia per essere una delle prime versioni di esoscheletro – il Rewalk è il risultato di una decina di anni di studio – non è male. L’esoscheletro è costituito da due gambe robotiche mosse da due motori elettrici attivati da un computer e alimentati da una batteria (che si porta in uno zainetto sulle spalle). Queste gambe sono dotate di una soletta metallica su cui si appoggia il piede e di lacci che consentono di agganciarle al polpaccio e alla coscia della persona.
Manuela Migliaccio mentre indossa il Rewalk
Manuela Migliaccio mentre indossa il Rewalk
Il Rewalk si indossa da seduti e poi attraverso un pulsante si ordina all’apparecchiatura di sollevare in posizione eretta la persona. Questo movimento e quello che permette di salire e scendere le scale sono gli unici due automatizzati. Infatti il comando che permette di camminare non è impartito con un pulsante, ma con un movimento del busto: più ci si inclina in avanti, maggiore è la velocità con cui il Rewalk esegue il passo.
Con curiosità ho seguito Manuela lungo i corridoi del centro di riabilitazione Villa Beretta di Costa Masnaga (Lc) dove il Rewalk viene utilizzato, accanto ad altri strumenti robotici come il Lokomat, per la terapia riabilitativa. Un passo dopo l’altro ha fatto qualche centinaio di metri. E l’ho invidiata. Le ho invidiato la possibilità di fare le scale, anche se Manuela non ha potuto muoversi da sola, ma, per maggiore sicurezza, ha dovuto essere accompagnata dal personale medico. Poi mi sono fermato a riflettere. Cosa si può e cosa non si può fare? Sicuramente l’autonomia di 8 ore e circa 5 chilometri consente di indossare il Rewalk per buona parte della giornata, ma le mani sono impegnate con le stampelle che consentono un equilibrio maggiore. E poi? La disabilità non è solo data dal non camminare. Pensate all’assenza di sensibilità – nel caso di lesioni midollari – che non ti permette di sentire il caldo e il freddo (con il rischio di scottarti senza accorgertene).
E ancora l’incapacità di sentire gli stimoli fisiologici. E quelle sensazioni, timori, risvolti psicologici che ti accompagnano. Non è solo l‘impossibilità di muovere un passo a renderti disabile, sono i pensieri della gente, le consuetudini e i retaggi culturali di una società che emargina a pesare come un macigno sull’anima di chi porta con sé una disabilità. Ciò non toglie che il Rewalk può essere utile, a patto di considerarlo uno strumento riabilitativo e un ausilio per la deambulazione: l’Inail sta ad esempio valutando l’ipotesi di fornirlo esattamente come fosse una protesi. Pura innovazione tecnologica e dieci anni di studio da parte del suo sviluppatore Amid Goffer fondatore della Argo Medical tecnologies, non un miracolo. Forse la possibilità di tornare a camminare è dietro l’angolo.
Tratto da www.corrieredellasera\invisibili