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Ogni individuo sia valorizzato in quanto persona e non per quello che produce

giovedì 21 febbraio 2013

Oscar Pistorius, simbolo nella tragedia, e quei bimbi ora smarriti


Oscar Pistorius con bambino in Namibia

di Claudio Arrigoni

Il senso di Pistorius è in quelle foto. Quella del suo ultimo tweet, due giorni fa: lui e quel bambino namibiano amputato completamente alle gambe, al quale porge la mano. E scrive: “A luglio lancerò la mia fondazione: ad almeno 10 bimbi darò la possibilità di muoversi”. E ancora una foto di diversi anni fa, che da sempre ha usato per il suo profilo su twitter. Con Ellie, che era piccola allora e una malattia le aveva tolto braccia e gambe, a correre insieme a Manchester, entrambi su quelle lame che Oscar ha sublimato simbolo di libertà. A quella di JJ, che il giorno di Halloween all’asilo a New York è andato vestito da Pistorius, esibendo bene quelle protesi, lui con le gambe amputate a pochi mesi dalla nascita. Ancora a quella con Bebe in pista a Mogliano Veneto: aveva iniziato a correre, lei quindicenne senza i quattro arti da quando aveva 11 anni, perché Oscar le aveva detto che era divertente.

Ora che è dentro una tragedia immane, che la tristezza è in primo luogo per quella ragazza e la sua vita spezzata, che si deve capire e forse non si capirà mai il perché. Ora non sarebbe forse il momento, ma è giusto farlo. Le cronache si devono occupare di quel che accaduto, degli spari nella notte, di una vita che se ne va e due famiglie distrutte. Ma si deve anche riflettere su Oscar Pistorius e quello che è stato sino a oggi. Perché nulla sarà come prima.
“Non sono disabile, semplicemente non ho le gambe”, diceva adolescente. Aveva 11 mesi quando gliele hanno amputate sotto il ginocchio, 17 quando ha messo le prime protesi. A 7 anni ha cominciato a giocare a calcio, a 11 lo scelsero per la squadra di tennis della sua regione. Intanto si divertiva con cricket e rugby. A 15 anni la mamma, Sheila, è morta improvvisamente per una allergia ai farmaci. In quel periodo cominciò a correre. A 17 vinse i 200 metri alla Paralimpiade di Atene 2004. Un anno dopo disse: “Ho un sogno: correre all’Olimpiade”. Divenne un obiettivo. A Londra 2012 gareggiò in Olimpiade e Paralimpiade, atleta simbolo dei Giochi insieme a Usain Bolt. “Non sei disabile per le disabilità che hai, sei abile per le abilità che hai”: questo ripeteva e voleva trasmettere, guarda le abilità.
Oscar e Ellie
La storia serve per capire perché è diventato il simbolo delle persone con disabilità nel mondo. Milioni si sono ispirati a lui. Una persona senza gambe che nella corsa è più veloce delle persone con le gambe. Le polemiche su vantaggi e svantaggi lo avevano reso ancora più forte. La scienza aveva mostrato che quelle protesi non avvantaggiavano. Probabilmente bastava il senso comune. Anche quella vicenda rafforzò il suo messaggio: “Mai arrendersi”. Quello che bambini come Ellie e quel piccolo in Namibia hanno colto guardandolo correre e cercando di fare come lui.
Un giorno mi disse: “Devo correre più veloce che posso, non solo per me, anche per quelli che guardano a me”. Sapeva di ispirare un incalcolabile numero di persone. Come quei bimbi.
JJ vestito da Pistorius per Halloweeen 2012
Non era un supereroe. Era un ragazzo prima e un giovane poi che amava la vita e qualche eccesso. I motori e le corse con auto e moto, per esempio. Tornando da una festa, guidando una barca su un fiume di notte, aveva rischiato di morire finendo contro un pontile. Una ragazza lo denunciò perché a una festa a casa sua la aveva cacciata in malo modo. Lui disse che era stata lei ad alterarsi. Capita quando a poco più di venti anni si è tra le persone più famose del mondo. Ma il sorriso non lo abbandonava mai.
Ora ripenso a quel ragazzo conosciuto ad Atene nel 2004, diciassette anni, brufoli in viso e l’apparecchio ai denti, che in meno di dieci anni ha saputo abbattere barriere che rompere appariva impensabile. Ha fatto più lui con le sue corse che decine di anni di convegni e parole. Ripenso a Ellie a Londra, a quel bimbo in Namibia, a JJ a New York, a Bebe in Italia.
E penso a Reeva, bellissima e dolcissima, come la ricordano le amiche. Riposi in pace.
Tratto da: http://invisibili.corriere.it

sabato 9 febbraio 2013

La mente corre ma il corpo va lento, La sclerosi multipla compagna di vita.


“E’ terribile quando la mente corre mentre il tuo corpo va a rilento”. E’ l’immagine della sclerosi multipla. Il dossier di Corriere Salute mette in luce storie, ricerche e scienza di una malattia con mille porte aperte, aspetti molteplici, momenti comuni e unici. Perché chi è affetto da sclerosi multipla ci deve convivere, ogni ora, giorno, settimana. Con speranze e disillusioni che si accavallano. Quella immagine la porta Antonella Ferrari, un’attrice di quelle brave, che da poco più che ragazza convive con la malattia e i suoi effetti. Nella vita e nel lavoro.
Il suo libro, “Più forte del destino” (Mondadori), è diventato un best seller, probabilmente il più venduto fra quelli in cui questa malattia viene trattata, anche se dentro ci sono pezzi di vita che partono dalla sua condizione e arrivano ad altro. La sua rubrica su Chi, rivista con centinaia di migliaia di lettori, è fra le più seguite e apprezzate. E’ testimonial dell’Associazioni Italiana Sclerosi Multipla. E’ la malattia che esce dal limbo. Fra pochi giorni sarà fra i protagonisti di “Un matrimonio”, film a puntate di Pupi Avati, in onda per diverse settimane su RaiUno in prima serata. Un caso raro, forse unico: Antonella è famosa in un mestiere dello spettacolo partendo da una condizione di disabilità data dalla malattia, non l’ha acquisita nel tempo. Per questo, anche se non se lo è scelto, il suo ruolo di “testimone” ha ancora più valore e viene apprezzato. Ed è anche scomodo.
“La mente corre e il corpo va lento”: l’ascolto del proprio corpo è fondamentale quando si ha la sclerosi multipla. “Puoi arrivare a patti con la malattia, diventa un compagno di vita con cui devi dividere il tempo”: ecco quello che ha fatto lei. La sua storia si riflette in quelle di tanti. L’hanno vissuta migliaia di donne e uomini. Lei facendo l’attrice, altri lavorando in fabbrica, altri ancora in ufficio o impegnati negli studi. Mostra quanto la SM sia strisciante: colpisce ogni aspetto della vita. Antonella ne ha parlato anche qui su InVisibili, riguardo per esempio e maternità e dintorni.
La diagnosi. Quella è la prima porta che si apre della nuova vita. La stanchezza profonda come primo sintomo. Fino a qualche tempo fa, senza andare troppo indietro nel tempo basta pensare agli anni ’90, era sottovalutato. Da chi l’aveva al medico. Oggi, come mette in luce anche il dossier di Corriere Salute, molto è cambiato. “Per me è stata una liberazione. Per anni ho lottato per scoprire la verità. La diagnosi è stata una conquista più che una sentenza. Ero stanca di sentirmi dire che era solo stress”. Nel bellissimo video che presenta il libro ci sono anche queste parole. Pure gli esami strumentali, in quel periodo ancora imperfetti, non la segnalavano. “Ecco perché dico ai medici: sappiate ascoltare i pazienti e fate attenzione a come presentate la diagnosi. E’ bene non illudere, è male essere distruttivi”. Realisti, sapendo mostrare le possibilità di una vita che cambia. Come è accaduto ai 65 mila malati di SM. La condizione di disabilità che si vive porta a nuove consapevolezze. “Voler combattere e sperare, comunque. Non sempre è facile”.
Il “viaggio della speranza” ne “La storia di Graziella V.”, splendidamente raccontata su Corriere Salute, è emblematico di quanto la fragilità diventi forza. Ancora le parole di Antonella affidate a quel breve, intenso minidocumentario: “Il sogno è la base di ogni cosa: a me ha permesso di rialzarmi ogni volta che il dolore mi ha costretto a terra. Sognare non è facile (…) La paura a volte fa capolino. Tu non hai paura? Ma è più forte la voglia di volare che la paura di cadere”.
Tratto da www.invisibili.corriere.it