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Ogni individuo sia valorizzato in quanto persona e non per quello che produce

giovedì 17 ottobre 2013

Cosa significa in Italia essere madre di un autistico

Una donna di 50 anni ha accoltellato oggi il figlio disabile di undici anni.
 
GIANLUCA NICOLETTI
Non può esserci commento possibile alla notizia di una madre che accoltella il figlio di undici anni. Non basta appigliarsi alla scarna formula da lancio d’agenzie che informa vagamente che “soffriva di depressione”, a meno di voler correre il rischio di somigliare agli opinionisti da salottino tv, quelli che hanno l’espressione compunta davanti ai plastici di baite di montagna, alle copie di mannaie, alle foto di pavimenti con macchie ematiche.   
Non è invece secondario il fatto che il bambino fosse autistico, l’elemento più delicato e “sensibile” che è trapelato dal riserbo necessario attorno alla vicenda. Oggi è d’ uso un generalizzare diffuso, quanto scellerato, che mette in rapporto l’ autismo con episodi di cruda cronaca, quindi non pongo al momento in cui scrivo l’ assoluta certezza che in realtà fosse quello il disturbo di cui soffrisse la vittima di quell’ atto di disperato furore.   
Posso in coscienza sentirmi di dire, sulla mia personale esperienza familiare, che se il bambino di Promano è in realtà autistico, comprendo la depressione della madre, anche se naturalmente non giustifico minimamente il suo gesto.  
Per una madre che viva in Italia non esistono, almeno al momento e per quello che io ho avuto modo di conoscere, molte situazioni altrettanto angosciose che dovere gestire un figlio autistico, alla soglia dell’ adolescenza. Nel nostro paese l’ approccio a una sindrome, che si pensa debba interessare (pare) seicentomila persone, è assolutamente irrazionale e superficiale. La dice lunga il fatto che siamo l’ unico paese che ai convegni internazionali non sia in grado di fornire dati certi su quanti siano effettivamente gli autistici, quale sia il livello di soddisfazione delle famiglie che debbono gestirne un caso, quale sia il destino di questi ragazzi una volta maggiorenni.  
Quella madre sarà giudicata da chi è preposto a farlo, ma non possiamo perdere questa occasione per aprire una seria riflessione su quale sia il profondo senso di abbandono in cui si trova una famiglia che deve gestire un autistico, senza interlocutori certi e informati, senza che ci siano protocolli di abilitazione ufficializzati e applicati su tutto il territorio nazionale ( le linee guida emanate due anni fa dall’ I.S.S. ancora non sono state tramutate in legge e nessuno sembra interessato concretamente che questo avvenga).  
 In tutto questo resta, mellifluo e impalpabile, ma crudelmente lancinante, l’ antico pregiudizio che le madri abbiano concrete responsabilità sulla disabilità del figlio. Pochi lo ammettono, ma ancora viene chiesto a molte mamme di autistici  se durante l’ allattamento avessero guardato negli occhi il figlio. L’ autismo in Italia, fatte salve alcune straordinarie eccellenze, è ancora istituzionalmente appannaggio di pressapochismo, ignoranza, superstizione.  
Il peso maggiore  di un problema così esteso, che rappresenta statisticamente la prima causa di disabilità, grava sulle famiglie. Nuclei familiari che lentamente vanno in disfacimento , dove le madri, ancor di più, restano sole a gestire un amatissimo vampiro, che allo stesso tempo è il loro carceriere e il loro sorvegliato speciale.  
Tutto questo non giustifica le coltellate, ma serve a distribuire almeno la responsabilità di alcuni impazzimenti materni.
Tratto da LA STAMPA.it

domenica 13 ottobre 2013

I sacramenti sono davvero per tutti? Ecco l'inchiesta sulle parrocchie "accessibili"

L'inclusione delle persone disabili nella Chiesa resta ancora lontana, anche se papa Bergoglio continua a indicarla, soprattutto con i gesti concreti. Ne parla il mensile SuperAbile Magazine di ottobre. Un papà spiega: "Il problema va visto a 360 gradi: forse manca l'accoglienza in generale, che richiede sensibilità, coscienza, disponibilità, preparazione. E amore, prima di tutto"
Papa Francesco abbraccia un ragazzo disabile
ROMA - Alcuni bambini autistici hanno ricevuto la prima comunione a Treviso, nel maggio scorso. Una giornata indimenticabile per Giampietro, Ottavio e Federica, che si sono ritrovati con le loro famiglie e alcuni amici nella chiesa della Madonnetta a Santa Maria del Rovere. Sembrerebbe un evento scontato e invece no: a Napoli una mamma di un ragazzo con autismo si è vista rifiutare il sacramento per suo figlio, ancora non pronto a riceverlo secondo il parroco. Quindi i sacramenti sono davvero accessibili alle persone disabili credenti che chiedono di riceverli? Affronta il tema un'inchiesta sul numero di ottobre del mensile SuperAbile Magazine.
I tre ragazzi trevigiani si sono preparati in maniera particolare all'evento. Anzitutto il parroco, don Adelino Bortoluzzi, ha accolto con disponibilità la richiesta di un gruppo di genitori della Fondazione Oltre il labirinto. Inoltre è stato cruciale il supporto dello psicologo Stefano Castiglione, che "ha preparato i ragazzi a questo momento" con un percorso di avvicinamento al sacramento, riferisce Alberto Cais, presidente della fondazione. "Per chi ha una sindrome autistica le celebrazioni sono spesso difficili da gestire. Quindi la cerimonia è stata studiata nei minimi particolari e sapientemente tarata: dalla scelta delle musiche all'omelia breve ma incisiva", evidenzia Mario Paganessi, padre di Giampietro e direttore generale di Oltre il labirinto.
Prime comunioni a Treviso.
Anche Arturo Mariani, universitario diciannovenne nato senza una gamba, non ha avuto problemi ad accedere ai sacramenti ma una corsia preferenziale, per così dire: la sua catechista era la madre Gianna, ora alle prese con l'inserimento di una bambina Down nel gruppo di cresima. "Sicuramente sono importanti gli stili con cui si fa catechesi, spesso ancora ancorata a metodi scolastici", osserva Stefano, padre di Arturo e membro con la moglie dell'Ordine francescano secolare a Guidonia, in provincia di Roma ma diocesi di Tivoli. Che si chiede: "Come rendere le comunità ecclesiali ancora più inclusive e accoglienti nei confronti delle persone disabili? Il problema va visto a 360 gradi: forse manca l'accoglienza in generale, che richiede sensibilità, coscienza, disponibilità, preparazione. E amore, prima di tutto".
Oltralpe non mancano segnali che fanno ben sperare. Anne Herbinet, pedagogista e responsabile nazionale del Settore per la catechesi ai disabili della Conferenza episcopale francese, riferisce che nella diocesi di Grenoble i catechisti hanno inventato "una pedagogia particolare per permettere ai giovani colpiti da autismo di cui si occupano di partecipare al sacramento della riconciliazione". Dato che non parlano, ma sono abituati a usare i pittogrammi, dopo aver avvertito il sacerdote che faceva le confessioni "hanno utilizzato dei sassi dipinti per esprimere la loro colpa e il peso dei loro peccati, scegliendo quelli su cui era raffigurato ciò che volevano esprimere, portandoli in una piccola borsa consegnata al confessore". Che vede i messaggi e "libera" dal peso dei sassi. "Poi consegna loro, come segno di riconciliazione, un pittogramma di perdono, di pace, di gioia".
Ma anche in Italia le parrocchie possono fare molto per una maggiore inclusione, "anche se non è facile per tre motivi - snocciola Laura Previdi, insegnante di Lettere in pensione, autrice del volume Parole in libertà. Diario semiserio della madre di un disabile (Paoline) e madre di Marco, 42 anni, con una grave disabilità -. Il primo? Le difficoltà che la Chiesa locale e forse anche quella globale ha nel nostro tempo, in cui emergono crisi di fondo come quella della famiglia. In secondo luogo, la mancata disponibilità da parte dei credenti. Infine, la modesta frequentazione delle strutture ecclesiali da parte delle famiglie con figli disabili. Marco in parrocchia è uno dei pochissimi abituato ad andare con noi a messa, vuole fare la comunione e se gli gira storto pazienza: esco fuori con lui". Per don Vasco Giuliani, presidente della Fondazione Opera diocesana d'assistenza Firenze onlus (Oda), "è difficile rilevare i bisogni di spiritualità di un disabile intellettivo, ma se vogliamo compiere un servizio alla dignità della persona dobbiamo individuare un linguaggio che superi quella che sembra una difficoltà di comunicazione insormontabile". (Laura Badaracchi)
 
 Tratto da SuperAbile.it INAIL