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Ogni individuo sia valorizzato in quanto persona e non per quello che produce

lunedì 25 novembre 2013

Donne disabili, discriminazioni e violenza

Alcune analisi, riflessioni e proposte in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (25 novembre) e della Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità (3 dicembre)
 
 Le donne con disabilità sono discriminate sia in quanto donne, sia in quanto persone con disabilità, e lo sono maggiormente se appartengono a minoranze etniche, linguistiche o religiose. La violenza nei loro confronti attinge a un pregiudizio di genere, e cioè alla mancanza di parità di uguaglianza tra uomo e donna, cui si aggiunge la considerazione stereotipata relativa al corpo della donna disabile, percepito in genere come “asessuato”, “anormale” o “malato”.
Ne consegue la negazione di titolarità di diritti, sia come donne, sia come madri che amiche o professioniste. Questa doppia discriminazione è causa di varie forme di violenza – alcune esplicite, altre subdole – difficili da identificare e combattere, perché spesso si verificano in ambienti familiari o di cura e si manifestano con modalità non rientranti nella generale e consueta categoria di violenza. Ad esempio, il diritto alla salute per le donne con disabilità è condizionato dall’accessibilità dei servizi sanitari e la discriminazione si può manifestare – per citare un caso – quando, richiedendo prestazioni come la mammografia e il pap test, si trovano strumenti diagnostici non adatti per chi ha problemi di mobilità o di equilibrio, cosicché la difficoltà nel mantenere la posizione adatta o lo spostamento sul lettino ginecologico – uniti alla scarsa professionalità del personale sanitario – spesso rendono questi screening umilianti e imprecisi, con l’unico effetto di diventare un deterrente alla prevenzione e alla cura. 
Cerchiamo di immaginare cosa succede da un punto di vista pratico se la disabilità è intellettiva. I processi sanitari subiscono una battuta di arresto e si opera alla meno peggio. In questi casi si parla di “paziente non collaborante” (e qui bisognerebbe aprire un intero doloroso capitolo). Da una ricerca dell’Alto Commissariato dell’Onu per i diritti umani, emergono altri aspetti allarmanti relativi alla violenza nei confronti delle donne e ragazze con disabilità. In Europa 1.200.000 persone con disabilità vivono permanentemente in istituti (150.000 bambini/e), senza il diritto di una partecipazione alla vita ordinaria, come invece accade agli altri cittadini europei.
Secondo poi un rapporto del Parlamento europeo, circa l’80% delle donne istituzionalizzate sono esposte al rischio di violenza, spesso compiuta proprio dalle persone che dovrebbero prendersi cura di loro. E ancora, in Germania uno studio commissionato dal Ministero per la Famiglia rivela che migliaia di donne istituzionalizzate – con disabilità intellettiva – hanno subito abusi sessuali (fonte: Der Spiegel online, 14 febbraio 2012). C’è poi un altro tipo violenza, quella cioè che si rivela nella negligenza assistenziale, nel trascurare i tempi dei bisogni primari individuali – come lavarsi, vestirsi o mangiare – nel controllare e limitare la comunicazione con l’esterno, senza ascoltare le richieste personali e restringendo, inoltre, le possibilità di incontro con familiari e amici. In tali ambiti può anche accadere che donne anziane e/o con disabilità psicosociali vengano sottoposte – senza il loro consenso – a trattamenti inaccettabili come l’elettroshock e purtroppo, in alcuni paesi, sopravvivono pratiche di sterilizzazioni forzate, nonostante la Convenzione Onu ribadisca il diritto per la persona con disabilità di decidere su tutti gli aspetti della propria vita, compresi i trattamenti sanitari (articolo 12).
Denunciare questi abusi non è facile. Le donne con disabilità sono totalmente dipendenti da chi ha perpetrato loro la violenza e il timore di perdere il sostegno di cui hanno bisogno ostacola il ricorso alla giustizia. L’accesso alla giustizia non è comunque agevole, sia per una scarsa consapevolezza dei propri diritti, sia per la mancata conoscenza dei mezzi per ottenerla e, laddove viene riconosciuta la capacità giuridica per avviare il procedimento, spesso si mette in dubbio la credibilità e l’attendibilità della testimonianza. Come è accaduto un anno fa a Soweto, in Sudafrica, ove una ragazza con disabilità di 17 anni è stata rapita, sequestrata e violentata per giorni da un gruppo di sette ragazzi tra i 14 e i 20 anni, che hanno filmato e poi divulgato sul web le loro violenze. La vittima aveva già subito abusi dall’età di 12 anni, ma, nonostante la madre lo avesse denunciato, la ragazza non era stata creduta, a causa della sua disabilità intellettiva e delle condizioni di povertà della famiglia (fonte: Cnn, 19 aprile 2012).
Cruciale, pertanto, è dare visibilità alle multidiscriminazioni subite dalle donne con disabilità, favorendo una maggiore rappresentatività dei loro diritti sia a livello politico-istituzionale che all’interno delle associazioni impegnate nella difesa dei diritti umani. Ed è anche auspicabile una stretta cooperazione tra le organizzazioni delle persone con disabilità e il movimento delle donne, per richiedere agli organismi legislativi e amministrativi competenti le azioni necessarie attinenti il genere e la disabilità, garantendo l’accesso all’istruzione, alla formazione, al lavoro, alla salute e al diritto di decidere su sessualità, gravidanza e adozione. La Convenzione dell’Onu sui diritti delle persone con disabilità, all’articolo 6 (Donne con disabilità), pone una particolare attenzione alle donne con disabilità, riconoscendole come persone esposte a rischio di violenza, maltrattamenti e abusi e raccomandando agli Stati di adottare misure amministrative e legislative per identificare e denunciare gli atti di violenza (articolo 16), con la garanzia dell’accesso a servizi di protezione sociale (articolo 28).

Fonte: LucidaMente

lunedì 11 novembre 2013

Falsi ciechi? No, persone normali che vivono nonostante la disabilità

La Fondazione Lucia Guderzo di Loreggia (Pd) sta raccogliendo video-storie per testimoniare come, pur essendo non vedenti, si possa lavorare e mantenere la propria autonomia. I filmati inviati a tutte le sedi della Guardia di Finanza.

 LOREGGIA (Padova) - Pietro Rivella, 80 anni, è cieco da quando ne aveva 25 e conduce a Jesolo con successo la sua attività di albergatore. Felice Tagliaferri è uno scultore di Bologna che vive grazie alle sue creazioni. Don Gerardo è un parroco musicista della provincia di Perugia. Le loro sono solo alcune delle 17 video-storie finora raccolte dalla Fondazione Lucia Guderzo di Loreggia, in provincia di Padova, per lanciare forte e chiaro un messaggio: “Non siamo speciali, siamo normali!”. Storie di normalità, appunto, per sfatare il luogo comune che essere ciechi significhi non poter essere autonomi e non poter coltivare aspirazioni e passioni.

Si può essere avvocati e insieme portare avanti l’azienda agricola di famiglia, sporcandosi le mani con la terra: lo dimostra l’avvocato Ghione di Saluzzo. “Tutti i lavori, a eccezione della guida delle macchine, li faccio io, orientandomi con gli altri sensi” racconta nel video. Ornella Longo e Michela Martini - una impiegata, l’altra casalinga -, sono due mamme che testimoniano come si possa gestire casa e famiglia pur non vedendo. L’iniziativa nasce per contrastare le accuse di finzione rivolte troppo spesso alle persone non vedenti, solo perché autonome. “Il fraintendimento nasce dall’idea diffusa dall’Unione italiana ciechi, che a forza di dire che la cecità è una cosa gravissima ha ingenerato nell’opinione pubblica l’idea che una persona non vedente non possa far nulla - spiega il presidente della Fondazione, Davide Cervellin -. Perciò abbiamo voluto che una delle prime attività della nostra fondazione, impegnata a favorire l’autonomia delle persone disabili, fosse di raccontare la vita delle persone cieche nei piccoli gesti quotidiani”. La storia di Rivella, per dirne una, è “l’esempio lampante di come si possa davvero avere successo nella vita, con impegno e dedizione. La disabilità non è un alibi per non fare, ma un motivo in più per fare”.
E per assicurarsi che il messaggio arrivi forte e chiaro a chi di dovere, la Fondazione ha inviato i filmati a tutte le guardie di finanza, “che in qualche caso segnalando falsi ciechi ha preso un abbaglio – precisa il presidente -, perché appoggiare correttamente la tazzina del caffè sul piattino non vuol dire che si è in grado di vedere”. I video, curati da Cervellin nella sceneggiatura e realizzati dal video maker Graziano Roana, stanno raccogliendo centinaia di visualizzazioni su Facebook, ma dalla Guardia di finanza a oggi non c’è stato alcun riscontro. Il prossimo obiettivo è di diffondere il materiale nelle scuole in occasione della giornata mondiale della disabilità del 3 dicembre.
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