.

Ogni individuo sia valorizzato in quanto persona e non per quello che produce

mercoledì 12 febbraio 2014

Io, mamma, all’improvviso in ospedale: di lui che sarà?

Il colore predominante è il blu. Quel punto di colore pastoso e riposante che è dei luoghi di cura. Mi spogliano completamente. Un’infermiera appoggia su una sedia abiti, biancheria, il foulard. La mia vita normale viene accantonata insieme agli indumenti su quella sedia e non so quando la indosserò di nuovo. O se la indosserò ancora.
Quasi a coprire la tristezza di quel pensiero, sugli indumenti viene appoggiato anche il cappotto dimenticato sulla sedia a rotelle, quella su cui ho trascorso le ultime tre ore in attesa degli esami che poi hanno decretato il ricovero in Unità Coronarica. Stranamente non ho paura, so che nessuno è eterno. E poi ho imparato bene, anni fa, cercando di curare la terribile forma epilettica di mio figlio, che aver paura non serve  a niente. Come tutti qui, affronterò  gli eventi uno per volta per venirne fuori o, serenamente, per lasciarmi andare a ciò che mi aspetta. Mi rendo conto che restare lucidi è importante; soprattutto per restituire serenità alle persone care che vivono in altre città. Sento che, sempre che vada bene, sono a una svolta e che la mia vita in simbiosi con il figlio con disabilità non potrà essere più la stessa.
Il dottore, per comunicarmi la decisione del ricovero in terapia intensiva usa un’espressone bellissima. Dice: “ Ora la mettiamo in sicurezza, signora. Stia tranquilla.”
Mettere in sicurezza qualcuno è più che salvarlo: è l’impegno qui e ora a fare di tutto, ad accompagnare una persona  e attendere con lei i tempi di una guarigione o quelli di una chiusura dell’esistenza, senza promesse, senza eroismi.
Questo ho cercato di fare fin qui: mettere in sicurezza i figli, senza bacchette magiche o miracoli che potessero cambiare la realtà. Ma realizzo subito che da questo momento,  rispetto al piccolo con disabilità, non sono più quella che può vantare esclusive sulla sua messa in sicurezza. Intanto mi domando se i familiari saranno capaci di superare la preoccupazione per me (viva o morta) e destinare le risorse emotive a lui, quelle che permettono di entrare in comunicazione profonda con una persona  per carpirne i non detti, le necessità ineludibili che lui non sa esprimere. “Mettere in sicurezza” significa anche saper cosa fare nell’emergenza. I genitori sanno cosa devono fare, gli altri no.
Mi rendo conto che non aver condiviso, almeno in famiglia, una sorta di ideale manuale per la gestione del figlio con disabilità, non è stata un’idea brillante. E che così facendo ho anche deresponsabilizzato gli altri. Penso a storie come quella di Queen Ann che “subì” la volontà del figlio, che lei avrebbe voluto proteggere dai pericoli di un viaggio intercontinentale, ma che portò il giovanissimo Alessandro al salto felice nell’età adulta, e la madre a riprendersi spazi di libertà. Che sono  fondamentali  se si pensa che i genitori dei figli con disabilità non hanno la libertà di divertirsi ma nemmeno quella di curarsi quando sono ammalati.
Nei giorni d’ospedale  ho tirato fuori un’altra me stessa e ho cominciato a volermi bene.
Tratto dal Blog invisibili Corriere della Sera