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Ogni individuo sia valorizzato in quanto persona e non per quello che produce

mercoledì 19 marzo 2014

Se c’è anche il papà


Mani-padre-figlio
Buona Festa del Papà. Ma c’è padre e padre. O no?
Si chiama Yu Xukang, ha quarant’anni, è divorziato ed ha un figlio di dodici anni, con disabilità. Ha fatto notizia questo papà cinese che percorre ogni giorno 29 chilometri per portare il figlio a scuola, a piedi e sulle proprie spalle. Il Daily Mail lo ha eletto uomo dell’anno. Ne ha scritto anche il Corriere della Sera. La fatica di questo papà mi riporta alla memoria quella sportiva del Team Hoyt, Dick e Rick, padre e figlio con paralisi cerebrale, che ha partecipato più volte all’Ironman, una forma molto dura di triathlon in cui Dick ha macinato 3,8 chilometri a nuoto trascinando un canotto con dentro il figlio, 180 chilometri su una bicicletta preparata con una speciale seduta per Rick e 42 chilometri di corsa spingendo la sedia a rotelle su cui Rick ha esultato tagliando il traguardo di una gara meravigliosamente tremenda.
Sono storie estreme che nascono in contesti ambientali ed economici lontanissimi, in tutti i sensi. Eppure a noi, commozione a parte, dicono le stesse cose. E parlano degli uomini, dei loro silenzi, di paternità vissute con trasporto, di forme d’amore così denso che si può toccare, misurare col metro e pesare con la bilancia. Ne scrisse una toccante esperienza anche Simone Fanti su InVisibili. E che si mette alla prova: ogni giorno viene infranto un nuovo piccolissimo record. Alle nostre latitudini invece si parla poco di consapevolezza paterna e quasi nulla di relazione con la disabilità. Come se coltivare i figli, oltre che accudirli, fosse mansione esclusivamente materna; come se la maternità fosse un obbligo e la paternità un optional; come se non fosse normale per una donna non avere voglia di maternità e destinare le proprie energie ad altro; come se non fosse normale per gli uomini avere uno spiccato senso della cura e una propensione potente verso la genitorialità.
Anni fa, al centro in cui mio figlio riceve le cure riabilitative, i padri erano presenti come autisti o per aiutare nelle mansioni più faticose. E invece i padri oggi sono protagonisti, si mostrano liberi da compiti di utile contorno, con i figli piccoli in collo; accompagnano figli adolescenti e con loro fanno squadra; lottano accanto ai figli adulti.  E li ascolto, in sala d’aspetto, quando parlano dei progressi dei propri figli, smisuratamente orgogliosi delle loro infinitesimali conquiste; e a volte, quando con più facilità si indovina la dimensione della loro solitudine, sono separati o vedovi. E coraggiosi e affamati di vita e di valori.
E sorrido pensando che sono lontani anni luce i giorni in cui ci si vergognava dei figli strani e al massimo, con tenerezza, ci si doleva; e solo tra amici intimi. Ma il fiorire in breve tempo di una serie di libri scritti da padri di figli con disabilità mi sembra sintomatico di un bisogno prepotente di raccontarsi e di dare pubblicamente di sé. Il coraggio di farlo non è, forse, ancora così diffuso ma personalmente ci spero, perché l’universo maschile merita di essere viaggiato e conosciuto in questa sua veste particolare. Massimiliano Verga, con “Zigulì” e “Un gettone di libertà”; Gianluca Nicoletti, con “Un giorno ho sognato che parlavi”; Franco e Andrea Antonello, con “Sono graditi visi sorridenti”  sono tre esempi di padri che devono alla propria iniziativa e all’autenticità dei loro scritti il favore che hanno incontrato presso il pubblico che, evidentemente, è tutt’altro che sordo all’approccio maschile alla genitorialità specie di un figlio con disabilità.
E allora, coraggio. E una volta di più, mille e mille auguri.
Tratto da invisibili.corriere.it

domenica 16 marzo 2014

Ribaltare la "disgrazia": così mia figlia disabile mi ha insegnato la felicità

Antonia Chiara Scardicchio è la mamma di Serena, bambina con grave ritardo mentale: "Lei non ha nessuna possibilità di riscatto. Però è felice. E io ho imparato da lei. Un bimbo disabile non è solo portatore di limiti, ma di valori". La sua esperienza in "Madri. Voglio vederti danzare"
copertina del libro
RIMINI - "Io la chiamo ‘arte della lamentazione': è la postura di chi rimane fermo davanti ai problemi. Immobile, non fa altro che piangersi addosso. Poi c'è l'‘arte della benedizione': è la forza di chi, davanti a una disgrazia, la ribalta a proprio favore. Io sono passata dalla prima alla seconda grazie a Serena". Serena è una bambina di 10 anni con un ritardo mentale grave con tratti autistici. A parlare è la mamma, Antonia Chiara Scardicchio, 39enne barese, docente al Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università di Foggia e autrice del libro "Madri. Voglio vederti danzare", edito da Agenzia Nfc. "Nella vita ho incontrato quelle che ho ribattezzato ‘madri addolorate', ma anche tante ‘madri maestre di danza', quelle che hanno capito che ai figli bisogna insegnare, ostinatamente e nonostante tutto, a essere felici".
Il libro non si rivolge solo alle madri di figli disabili, ma a tutti, uomini e donne, madri e padri, con figli in salute o malati, perché possano comprendere come gioire delle piccole cose della vita, come non si debba arrivare per forza a perdere tutto per capire quanto, invece, avessimo sin dall'inizio. Perché un bambino disabile non è solo portatore di limiti, ma anche di risorse: "Serena non ha niente, non sa leggere né scrivere, non ha nessuna proprietà di linguaggio. Io vivo di libri, studio libri, mangio libri, respiro parole: vissi i primi momenti come una disgrazia. Ma poi vidi la sua felicità, felicità per tutto quello che la circonda, felicità per essere viva. Ho imparato da lei e posso assicurare che, senza di lei, non sarei felice come lo sono ora. Qualcuno potrebbe obiettare che tutto ciò non ha senso, che io vivo dentro un'illusione, che io dico tutto ciò per autoconvincermi. A loro rispondo citando Jerome Bruner: ‘la vita è come te la racconti'. La felicità dipende da come leggi le circostanze". Ma attenzione: non si tratta di abbracciare la filosofia new age: "Perché le disgrazie esistono, inutile negarlo. Ma le ferite si possono trasformare in feritoie, come scriveva Aldo Carotenuto".
"Madri. Voglio vederti danzare" è curato da Antonella Chiadini con le illustrazioni di Patrizia Casadei e un appendice di immagini della scultrice Angela Micheli. È stato realizzato con il contributo della Fondazione San Giuseppe per l'aiuto materno e infantile onlus di Rimini, che ha rinunciato ai proventi per destinare tutto il ricavato alla scuola di Serena: "Serena, disabile al 100 per cento, frequenta una scuola paritaria. Quest'anno, per i tagli alla spesa pubblica, non ha ricevuto il contributo ministeriale per l'insegnane di sostegno per mia figlia, sebbene sia un suo diritto costituzionale: così, è intervenuta la Fondazione".
Già, le istituzioni: "Le istituzioni sono il vero handicap, contribuiscono a moltiplicare i disagi. Tutti i genitori di figli disabili dicono che il nostro è un vero e proprio lavoro: code, burocrazia, troppi passaggi. I diritti dei disabili restano solo sulla carta: nella realtà non esistono". Così, i genitori sono chiamati a rimboccarsi le maniche: "I servizi sociali non arrivano, al contrario di quanto accade nel resto d'Europa: perché un bambino disabile in Francia ha una vita completamente diversa da un piccolo disabile in Italia? Conosco un sacco di genitori che, potendoselo permettere, hanno abbandonato il nostro Paese e sono espatriati. Nel resto dell'Europa, le famiglie con un figlio disabile, vengono realmente adottate dallo Stato". Nel caso di Antonia Chiara, nucleo mono-genitoriale, la situazione è paradossalmente all'opposto: la pensione di invalidità, poco meno di 500 euro, non basta: "Mi dicono: se i soldi sono un problema, perché non iscrivi Serena a una scuola pubblica? Perché Serena non è un pacchetto: nella sua classe ha trovato una famiglia, e io non voglio sradicarla. Sarò io a fare tutti i sacrifici possibili pur di farla stare bene". Il problema, secondo Antonia Chiara, è l'assoluta mancanza di progettazione di una politica sociale: i politici incaricati hanno poca competenza in materia, e spesso non si prendono nemmeno la briga di ascoltare i veri protagonisti dei problemi che sono chiamati a risolvere: "La mia forza sono state le persone, ho tante amiche. Certe volte penso: c'è così tanta gente che va in Africa a fare del bene. Ma il prossimo è dietro l'angolo. Certe volte non posso uscire a comprare il latte o ritagliarmi il tempo per lavarmi i capelli. Non parlo di chissà che, non chiedo una persona che lavi mia figlia, piuttosto che la porti a fare una passeggiata, nulla di più. In Italia, purtroppo, tutte le persone malate sono sostenute dalla famiglia".
Inevitabilmente, si finisce con il pensare al dopo, a quello che i genitori di figli disabili chiamano ‘il dopo di noi': "Noi viviamo a Bari, una grande città. Ma, adesso che Serena finirà la scuola, non c'è nulla per lei. Ci sono solo i centri di igiene mentale, dove i malati di mente vivono con i ritardati; tanti problemi tra loro diversissimi tutti insieme, confusi per tipologia, età... Secondo le statistiche, i casi di autismo si stanno moltiplicando: prima o poi la politica sarà costretta a prendere in mano la situazione. Ma ci domandiamo quando accadrà".
(Ambra Notari)
Tratto da SuperAbile INAIL

sabato 1 marzo 2014

La disabilità: questo mondo sconosciuto!



Approccio emotivo: 
cosa proviamo davanti ad un disabile?

Al di là  della percezione di quanto e come la disabilità  sia diffusa nel corpo sociale, per la maggior parte degli italiani l’incontro con essa è episodico, o comunque circoscritto nel tempo e nello spazio. Si tratta chiaramente di momenti che spesso hanno prodotto reazioni emotive intense e articolate, che nell’ambito della ricerca si è tentato di approfondire: pensando all’ultima volta che si sono trovati a relazionarsi ad una persona con disabilità , gli italiani intervistati hanno indicato di aver provato, con diverse intensità , una gamma varia di sentimenti ed emozioni. Il sentimento che con maggior frequenza i rispondenti hanno dichiarato di aver provato con il massimo dell’intensità  (risposta “molto”) è la solidarietà , per tutte le difficoltà  e i problemi che la disabilità  crea: si è espresso in questi termini il 91,3% del campione, mentre il 7,3% ha dichiarato di aver provato questo sentimento “un po’” e l’1,4% di non averlo provato per nulla. Indicazioni numericamente molto simili, e dunque ampiamente maggioritarie, si rilevano a proposito del desiderio di rendersi utili e aiutare (l’82,7% lo ha provato molto) e dell’ammirazione per la forza di volontà  e la determinazione che la persona dimostrava (molto secondo l’85,9%). Per la metà  del campione (il 50,8%) la relazione con persone disabili non rappresenta un evento particolarmente sconvolgente, ed è infatti questa la quota di indicazioni “molto” per l’item “tranquillità , Le capita spesso di avere a che fare con persone con disabilità ”, sentimento provato solo un po’(33,1%) o per nulla (16,1%) dall’altra metà  dei rispondenti. Nel complesso questi dati delineano uno scenario piuttosto articolato, per cui se da una parte in grande maggioranza gli italiani riferiscono di aver provato, quando si sono relazionati a persone con disabilità , sentimenti positivi, quali la solidarietà , la ammirazione e il desiderio di rendersi utili, e la metà  del campione si è sentita tranquilla, di fronte ad una situazione “normale”, emergono però anche forme più o meno intense di disagio, di fronte alla persona disabile. Anzitutto la paura, perché la persona disabile evoca ancora in chi la guarda una sofferenza che si teme di dover sperimentare e più di 8 italiani su 10 la provano, molto o solo un po’, così come si registra in settori ampi della popolazione anche la difficoltà  a costruire con le persone disabili una relazione, che rimane evidentemente schiacciata tra la solidarietà  umana e la paura che nel contempo la disabilità  suscita, e che si concretizza nella difficoltà  a costruire quella empatia che non lasci spazio ad equivoci, offese, o compassioni indesiderate. Infine, seppure ampiamente minoritario, va rilevato l’atteggiamento di indifferenza che, con intensità  differenti, 2 italiani su 10 riferiscono di provare, e che pare il segno di una rimozione della questione, una sorta di chiusura individualistica, con ogni probabilità  da ricollegare alla paura della disabilità, dal momento che si rileva in quote più alte tra i rispondenti più anziani, statisticamente più esposti al rischio di doversi confrontare direttamente con il problema. Le opinioni raccolte specificamente a proposito del livello di accettazione sociale di cui godono le persone con disabilità  intellettiva riflettono in parte quanto rilevato a proposito delle emozioni provate in prima persona. La maggioranza degli intervistati, il 66,0%, ritiene infatti che le persone con disabilità  intellettiva siano accettate solo a parole nella società , ma che nei fatti si tratti di persone spesso emarginate. Quasi un quarto del campione (il 23,3%) condivide un’opinione ancora più negativa, e ritiene che non ci sia nessun genere di accettazione sociale per queste persone, che la disabilità  mentale faccia paura e che queste persone si ritrovino quasi sempre discriminate e sole. E’ invece il 10,7% degli intervistati ad avere una visione particolarmente rosea di questo tema, a ritenere che queste persone siano in genere bene accettate e che ci sia nei loro confronti disponibilità  all’aiuto e al sostegno.
Tratto da www.fondazioneserono.org